di Andrea Monti – PC Professionale n. 85
Fra i tanti casi giudiziari che hanno animato le cronache più o meno locali quello del sig. Internet è uno fra i più esemplari.
Da un po’ di tempo il sig. Internet – un gentile e un po’ noioso quasi quarantenne – è sulla bocca di tutti, accusato di avere commesso azioni infamanti: terrorismo, deviazioni mentali, perversioni sessuali e persino attentati all’onore delle persone… altro che Cannibal “The Cannibal”, questo è veramente un caso da manuale per criminologi, psicologi, periti, giudici poliziotti e giornalisti!
Nonostante le strenue professioni di innocenza supportate da prove chiare e argomentazioni ragionevoli ispirate più al sano buonsenso che a sottili distinguo tecnico giuridici pare proprio che non ci sia speranza, la condanna è già scritta ancora prima di un processo che forse non ci sarà mai, soprattutto ora che nuovi fatti rendono – agli occhi degli inquisitori, pardon accusatori – più evidente la colpevolezza di questo degno connazionale del Mostro di Milwaukee.
Entra la Corte, imputato alzatevi!
A parte gli scherzi, tre casi giudiziari accendono nuovamente i riflettori sul delicato problema del rapporto fra tutela dei diritti dei singoli e diritto dello Stato a punire: l’ennesima indagine sullo scambio di materiale osceno, il processo per affermazioni diffamatorie contenute in un libro poi reso disponibile anche tramite web e quello per la presunta diffamazione compiuta a danno di una banca mediante l’impiego di una rassegna stampa relativa ad una serie di vicende giudiziarie che coinvolgono il titolare delle pagine e dei funzionari dell’istituto di credito.
Noterete che se pure i nomi delle persone coinvolte in queste tre vicende sono di dominio pubblico (per essere stati pubblicati su diversi quotidiani) ho evitato a mia volta di riportarli. Questa scelta non dipende, o per lo meno non solo – come si potrebbe pensare – da un ossequio di maniera verso la legge sui dati personali, ma dal fatto che l’interesse di queste vicende sta nelle questioni generali trattate piuttosto che nelle vicende dei singoli. D’altra parte essendo tutti procedimenti in corso, non ritengo opportuno entrare in valutazioni di merito che spettano solo e soltanto ai magistrati cui spetta il compito di decidere.
Oscenità per ogni dove
Solo poche parole. Ennesima operazione – questa volta dei Carabinieri – diretta a sventare un traffico di immagini oscene fra un gruppo di persone. Il magistrato che conduce le indagini è lo stesso che aveva avuto il caso “Gift-Sex” poi conclusosi – nella parte relativa alle ipotesi più gravi come lo sfruttamento di prostituzione minorile – dopo solo tre mesi con una clamorosa (e taciuta) archiviazione.
Se da una parte c’è da rilevare un comportamento molto corretto dell’Arma che si è limitata a fornire informazioni di prassi senza eccedere in spettacolarizzazioni gratuite non posso trattenermi dal chiedere a me stesso la ragione di questo accanimento così tenace nel confondere i livelli di discussione: che differenza fa se un documento è scambiato personalmente o tramite la Rete? Che differenza fa se invece di usare una connessione Internet uso un collegamento punto punto tramite modem (per inciso, forse sequestraranno l’intera rete telefonica pubblica o – meglio – il solo tratto di linea che collega fisicamente i due sospetti)? Risposta: assolutamente nessuna…. ma quando c’è Internet di mezzo tutto è lecito, e quindi dàlli a sequestrare computer di utenti e provider, violare corrispondenza e via discorrendo… questi comportamenti – a prescindere dal merito – sono inaccettabili. Intendiamoci, nessuno intende minimizzare la gravità di un fenomeno come quello della malversazione di altri esseri umani, ma l’emozione suscitata da certe notizie – spesso gonfiate – non può essere il Cavallo di Troia grazie al quale ridurre spazi di libertà così faticosamente conquistati. “Legge antipedofili” a parte (sulla quale molto ci sarebbe da dire quanto a impostazione culturale) su un’accreditata rivista giuridica qualcuno ha avuto il coraggio recentemente di proporre il reato di “pedofilia telematica”…
“Fermi tutti!” – insorge a questo punto l’esperto commentatore di turno – “la differenza è la pericolosità del mezzo!“
Chi ci protegge dalla Rete?
Già, la pericolosità del mezzo… è un argomento sempre più frequentemente utilizzato nelle controversie giudiziarie in parte per ragioni giuridiche, in parte – molto consistente – per ignoranza e pregiudizio.
E’ quello che sta accadendo nei due casi (diversissimi fra loro) di quella che potremmo chiamare “diffamazione digitale” il cui denominatore comune è proprio quello di considerare l’Internet come uno strumento intrinsecamente dannoso, con particolare riferimento alla tutela dell’onore e dell’immagine.
Caso n.1
Un soggetto ritiene di essere stato truffato da alcuni funzionari di banca. Li denuncia e riporta gli articoli di giornale in argomento su un sito nel quale inserisce link che puntano sulla home page della banca e offre a chiunque – banca compresa – la possibilità di inviare messaggi di posta.
La banca interpreta questo fatto come azione diffamatoria e prima ottiene la rimozione delle pagine incriminate e poi inizia una causa per ottenere il risarcimento dei danni
Caso n.2
Un editore pubblica un libro – inchiesta – dal contenuto fortemente critico nei confronti dell’operato degli inquirenti – su un procedimento penale a carico del “padre spirituale” di una setta “religiosa” conclusosi poi con una clamorosa assoluzione.
L’editore consente esplicitamente la libera riproduzione e diffusione del testo in qualsiasi modo, e alcuni provider, raccogliendo l’invito, inseriscono sui propri siti chi articoli di commento alla vicenda, chi addirittura il testo integrale del libro, con delle pagine che invitano a consultare questo materiale.
Una delle persone di cui si parla nel libro, ritenendo di essere stata diffamata, promuove una causa contro l’editore (e fin qui nulla di strano) e contro due dei provider che hanno veicolato i testi incriminati.
L’accusa
Al di là del merito, cioè dell’effettivo contenuto diffamatorio degli scritti, ciò che interessa è capire se e in che modo la Rete deva essere coinvolta in queste vicende.
In entrambi i casi gli attori (cioè coloro che promuovono la causa) hanno fatto ricorso ad un noto argomento: il fatto che milioni di milioni di navigatori possano vedere una pagina web o essere raggiunti da un messaggio postato in rete, implicherebbe una possibilità di aggressione dei diritti del singoli di proporzioni esageratamente vaste. A fronte di una capacità offensiva così enorme i criteri sulla base dei quali valutare la responsabilità di chi opera in rete dovrebbero essere estremamente rigidi, pari – è stato affermato – almeno a quelli previsti per l’esercizio di attività pericolose (art.2050 codice civile) come la gestione delle centrali nucleari. Tradotto in italiano, ciò significa che – secondo questo schema concettuale – per evitare di essere considerati responsabili bisogna dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno.
La parola alla difesa
I (più o meno disinteressati) sostenitori ad oltranza della libertà di espressione a tutti i costi si appellano ad una serie di argomentazioni che vanno dall’invocare la tutela costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero, alla constatazione che il famigerato Communication Decency Act è stato dichiarato incostituzionale e che quindi la Rete non sarebbe censurabile per giungere, infine, all’affermazione che un provider non è responsabile tout court di ciò che passa sul proprio sito.
Considerazioni preliminari
Queste vicende pongono tre domande, e precisamente:
1 – In Rete si applica la legge “ordinaria”?
2 – Di chi è la responsabilità per ciò che accade?
3 – Fino a che punto un provider può essere coivolto?
La risposta alla prima domanda è un nettissimo SI. Il ciberspazio non esiste e non è necessario ipotizzare un sistema normativo dedicato.
E’ facile quindi rispondere alla seconda domanda: la responsabilità è personale cioè di chi commette il fatto (per quanto riguarda i reati), mentre può coinvolgere altri soggetti (come il provider) nel caso di responsabilità civili (cioè se vengono causati dei danni).
Veniamo alla terza risposta: il provider è responsabile (per quanto riguarda i reati) nella misura in cui ha volontariamente e coscientemente compiuto un atto illecito (il che lo esime da colpe per quanto riguarda newsgroup e via discorrendo), mentre sotto il profilo civile le questioni sono un po’ più articolate. Il tutto si gioca sul concetto di esigibilità: si può ragionevolmente chiedere al Geocities di turno che ospita migliaia e migliaia di pagine, un controllo minuzioso e sistematico? Ragionevolmente questo non è possibile quindi, se qualcuno fa qualcosa di sbagliato non sarà possibile ipotizzare automaticamente una corresponsabilità del provider. La situazione sarebbe diversa se al provider venisse comunicata ufficialmente l’esistenza del materiale “critico” a questo punto egli si trova di fronte ad una scelta: controllare il contenuto, giudicarne la natura e scegliere se continuare ad ospitarlo (assumendosi quindi la corresponsabilità per l’azione) oppure se adottare altri provvedimenti. In altri termini, la responsabilità giuridica sorge non perché si è provider, ma perché si sceglie di tenere un certo comportamento (a prescindere dal mezzo utilizzato).
Conclusioni
In poche parole: se diffondo notizie tratte da fonti verificate, se do la possibilità di replica, se affermo cose veritiere, non c’è diffamazione che tenga, ma se volontariamente scelgo di diffondere un documento me ne assumo ogni responsabilità.
Potremmo andare avanti ancora per molto – per la felicità del vostro malditesta – con ragionamenti di questo tipo, ma in realtà c’è una constatazione banale che taglia la testa al toro. la Rete è estranea ad entrambi i casi. Provate a sostituire nel ragionamento contenuto nel paragrafo precedente, al punto 3 la parola “provider” con “associazione culturale” o “movimento politico” e dal punto di vista giuridico otterrete esattamente lo stesso risultato.
Il fatto è che ogni volta in cui c’è di mezzo Internet le trombe del giudizio cominciano a squillare all’impazzata, non solo tra le schiere dei censori, ma anche – ed è più grave – fra quelle degli “alfieri della libertà” .
A questo punto mi domando – come già faceva il noto pensatore Gene Gnocchi – cui prodest? A chi giova tirare in ballo ad ogni piè sospinto e anche quando non è necessario questa o quella la violazione dei diritti fondamentali della persona?
Così facendo si rischia – quando veramente ce ne sarà bisogno (e in passato è già accaduto) – di trovare chiuse porte che ora si spalancano per un clamore suscitato impropriamente.
Tutto questo mi fa venire in mente la favola “Al lupo! Al lupo!”…
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